La crisi di governo attuale sembra surreale. Sembra un copione nato male e recitato peggio. Da un lato c’è un presidente del consiglio che più volte ha fatto ben intuire di volersene andare. Del resto Mario Draghi, abituato all’EuroTower e ai ritmi certo più dinamici della banca centrale europea, non si è mai potuto trovare a suo agio a Palazzo Chigi. Nel marzo 2021 ha accettato l’incarico probabilmente con la promessa l’anno successivo di salire al Quirinale come nuovo inquilino e non per formare un nuovo governo. Progetto poi fallito a gennaio con la rielezione di Mattarella.
Dall’altro c’è un ex presidente del consiglio che sta provando a usare gli stessi metodi che hanno portato alla sua defenestrazione. Giuseppe Conte, che invece a Palazzo Chigi, dopo anni di anonime cattedre universitarie, si trovava bene, in qualche modo vorrebbe restituire all’attuale maggioranza quanto da lui subito lo scorso anno.
Nel farlo però ha dimostrato la sua poca esperienza e la sua inconsistenza politica. Ha provato a copiare soprattutto Matteo Renzi. Quest’ultimo, come pretesto per abbattere il Conte II, nel 2021 ha parlato di governo al capolinea, di programmi inattuabili, di necessità di evitare che la mole di soldi del Pnrr fosse gestita dai commissari tuttofare di cui Conte si era circondato. E così ha dato un’enorme spallata all’esecutivo di allora, permettendo la nascita del governo Draghi.
Giuseppe Conte, nel frattempo diventato leader del M5S, ha tentato di fare la stessa cosa. Ma ha presentato nove punti di programma somiglianti più ai temini di scuola media, ha messo in mezzo il termovalorizzatore di Roma e le trivelle, ha in poche parole palesato come la crisi da lui innescata altro non è che un mero pretesto per dare lui ora la spallata. Il lavoro di Conte non ha assunto un aspetto politico ben definito, come nel caso di Renzi del 2021, ma una bega di ordine personale.
In pochi lo stanno seguendo, sia tra gli stessi parlamentari grillini, preoccupati forse di perdere mesi di stipendio in parlamento che mai più arriverà visto il tonfo del movimento nei sondaggi e nelle ultime amministrative, sia tra i cittadini. Ma non è in questo che l’attuale crisi di governo appare surreale.
Come detto, c’è un presidente del consiglio che vorrebbe andarsene e che sembra sfruttare l’addio di una manciata di grillini come pretesto per dare le dimissioni. Dall’altro lato, c’è un ex presidente del consiglio che vorrebbe far fuori il successore. Eppure il governo potrebbe restare tranquillamente in carica. I due diretti protagonisti, pur se antagonisti, vorrebbero la stessa cosa, ossia la fine dell’esecutivo Draghi. Ma a Palazzo Chigi potrebbe non cambiare nulla e potrebbero non essere necessari traslochi e passaggi di consegne. Almeno non nell’immediato.
Perché? Perché nel frattempo tra i due protagonisti antagonisti si è piazzato un altro partito, trasversale e molto ampio che ha già prefigurato loschi scenari apocalittici in caso di addio di Draghi. Non ci sono molti deputati, eccezion fatta di Renzi e dei pochi rimasti di Italia Viva, in questo partito. Più che altro si tratta della cosiddetta “società civile”. E quindi economisti, amministratori locali, sindaci, rappresentanti di categorie, ma anche editorialisti. C’è quindi una parte di quella considerata come la “classe dirigente” che sta promovendo una forte pressione per far rimanere Draghi.
Non senza, anche in questo caso, ragionamenti ai limiti del surreale. In primo luogo perché chi, come ad esempio il sindaco di Milano Beppe Sala, è tra i promotori di questo partito ha parlato di “richiesta che viene dal basso”. Circostanza non veritiera. Il Paese, inteso come totalità dei suoi cittadini e come opinione pubblica, è abbastanza disinteressato alle ultime vicende politiche. L’Italia è alle prese con il caro bollette e con una povertà dilagante e alle persone comuni poco importa della sorte di Draghi. Scambiare una richiesta (legittima, per carità) di un pugno di amministratori e opinionisti come un moto che arriva dal popolo o “dal basso” è atto di disonestà intellettuale. Oppure segno di non aver molto compreso la realtà.
In secondo luogo, perché chi sta pressando per far rimanere Draghi sta parlando, come detto, di scenari apocalittici in caso di suo addio. In particolare, si fa riferimento alla necessità di “portare a termine le riforme”, di gestione delle risorse del Pnrr, di “credito internazionale acquisito dall’Italia”. Si sta quindi dicendo che oggi serve Draghi, chiamato dall’esterno del panorama politico, per attuare programmi che nessuno tra altri politici riuscirebbe a porre in essere. “O Draghi o la morte”, per dirla breve.
Però occorre precisare che se anche l’attuale esecutivo dovesse sopravvivere, l’Italia andrà alle urne a marzo. E lì per forza Draghi dovrà farsi da parte, in quanto la palla tornerebbe alla politica e agli elettori. Ma se soltanto l’ex governatore della Bce, secondo il ragionamento dei suoi sostenitori, può risolvere i problemi italici, rinviamo quindi sine die il voto? Commissariamo il Paese, dando a Draghi pieni poteri in attesa che la pioggia di emergenze (Covid, guerra, clima, muretto Ferrari incompetente e nazionale italiana fuori dai mondiali) si diradi?
E poi, si è così sicuri che la linea di Draghi sia quella realmente voluta dagli italiani? Allo stato attuale, nei sondaggi il primo partito è l’unico che non fa parte della maggioranza. Beninteso che Draghi può anche restare e fare gli ultimi mesi di legislatura, se le forze politiche parlamentari lo riterranno opportuno. Ma terminato il mandato, appare doveroso, non solo per scadenza costituzionale ma anche per etica politica, ridare la parola agli italiani. Altrimenti, per l’appunto, commissariamo il Paese e mettiamo colonnelli in giacca e cravatta.