Le ultime due generazioni in Europa hanno sempre rimarcato di non aver mai visto una guerra. O comunque non da vicino. Affermazione errata per la verità. Prima del conflitto in Ucraina, la guerra varie volte l’abbiamo vista da vicino. Chiedere ad esempio agli abitanti di Gorizia, quando nel giugno del 1991 hanno udito da vicino gli spari dall’altra parte del confine che significavano l’inizio dello scoppio delle varie guerre nella ex Jugoslavia. O chiedere anche ai siciliani che nel 2011 vedevano partire gli aerei da Trapani diretti nell’altra sponda del Mediterraneo per bombardare Tripoli.
Certo, è vero che (per fortuna) uno stato di guerra nel territorio nelle ultime decadi non è stato dalle nostre parti sperimentato. E allora si è detto che la prova più grande affrontata nel dopoguerra è stata rappresentata dal Covid. “Siamo in uno stato di guerra” si è spesso ripetuto nel marzo 2020, il mese del lockdown totale nel nostro Paese.
Affermazione che all’epoca poteva forse avere un senso. Ma oggi, davanti alle immagini del conflitto in Ucraina, parlare ancora di Covid come di una guerra appare abbastanza anacronistico, un concetto di fatto superato. Basta guardare non solo la Tv, ma anche i volti dei profughi ucraini che giorno dopo giorno arrivano nelle nostre città. La guerra è ben altra cosa rispetto a un lockdown.
Attenzione, con questo non si vuole sminuire la sofferenza patita da chi è stato in ospedale, dai familiari di chi non ha potuto dare un ultimo abbraccio ai propri cari, da chi nei nosocomi ha dovuto sopportare turni infiniti e massacranti di lavoro. Quelle immagini dei carri dell’esercito che uscivano da Bergamo con le bare delle vittime da Covid ancora oggi rappresentano l’emblema delle sofferenze italiane di allora.
Ma non è stata una guerra. É stato un periodo difficile, vissuto tra mille ansie e con uno stato d’animo angosciato da parte di tutto. Ma non una guerra. Rimarcare questa differenza è fondamentale per capire come superare i prossimi mesi. Non è soltanto un mero esercizio di retorica, quanto un dare valore e peso a quello che si è vissuto. Oggi che un conflitto lo abbiamo alle porte d’Europa e che farà tra non molto avvertire i suoi effetti in termini di aumento dei costi delle materie prime (già in parte avvenuto, anche se per motivi diversi dalla guerra), quando in Tv si dirà che il Covid è come una guerra non ancora terminata si è legittimati a non crederci.
E quindi si è (finalmente) legittimati a non guardare più in modo ossessivo i vari bollettini su contagi, ricoveri e vittime sparati ripetutamente e quotidianamente un po’ ovunque. E che soltanto la guerra, quella vera, ha rilegato nelle seconde pagine o nelle seconde parti dei Tg. Quando il vero conflitto terminerà (si spera a breve), attenzione a chi dirà che il Covid è una battaglia ancora da vincere, legittimando così proprie presenze pontificatrici in televisione.
Il Covid è brutto, ma gestibile. Senza emergenze (e menomale che dal 31 marzo almeno formalmente l’emergenza finirà), senza evocare conflitti, senza andare a richiamare scenari da trincee sanitarie e da conflitti metaforici. Questo sarebbe un affronto non solo a chi nella vera guerra in questi giorni sta morendo, ma anche allo stesso buon senso. L’unico vero elemento in grado di tirarci fuori dalla Covid-follia.