Da che parte stare? Forse è questa la domanda che più ha riecheggiato nelle menti di tutti non appena abbiamo visto l’inizio delle operazioni russe in Ucraina. Ma le regole della geopolitica non sono poi così diverse da quelle della strada. Quando due persone si azzuffano l’istinto porta, prima di ogni cosa, a dividerle. Vedere chi ha ragione e chi ha torto è elemento secondario. La priorità è evitare che uno dei due oppure entrambi si facciano ancora più male.
La Russia ha aggredito l’Ucraina e questo è un fatto. Un fatto da condannare, si capisce. Le ragioni di Mosca hanno una connotazione politica. Il Cremlino da tempo teme un’ulteriore espansione della Nato e ha deciso di innalzare così una nuova barriera. Il problema, non solo etico ma anche politico per Vladimir Putin, è che questa nuova cortina sta saltando fuori a suon di bombe e con un’aggressione verso un Paese sovrano, con proprie istituzioni e proprie amministrazioni. Un qualcosa che, nel XXI secolo, risulta dispendioso (in termini di perdita di vite umane e a livello economico) e anche anacronistico.
Ad ogni modo, i due contendenti, per usare ancora un’analogia con la strada, sono arrivati alle mani. Che fare a questo punto? Chiedersi da che parte stare potrebbe rivelarsi di per sé un errore. Chiaro che davanti a un’aggressione, l’empatia e la simpatia va verso chi si difende. Ma è proprio qui che ruota il perno della questione. In che modo si può difendere chi è stato aggredito? Se lo si incita a continuare mentre subisce altre ferite, il rischio concreto è di andare incontro a ulteriori danni.
Purtroppo è esattamente quello che sta facendo l’occidente. Europa e Usa hanno scelto di prendere una precisa parte e di rinunciare a ogni mediazione. Un atteggiamento forse comprensibile dalle parti di Washington. Inconcepibile invece da parte europea. Non si tratta solo di gas, di energia e di minaccia nucleare. Proprio perché è anacronistica nel XXI secolo una guerra come quella in corso in Ucraina, è ancora più insostenibile pensare oggi di creare una nuova spaccatura nel Vecchio Continente.
La Russia non è solo Putin e Gazprom. La Russia è anche il Bolshoj di Mosca, l’Hermitage di San Pietroburgo, la patria di grandi pensatori e letterati organici alla cultura europea e occidentale. É un Paese cioè con cui esistono da sempre forti legami di vario genere, non recisi nemmeno durante la guerra fredda. In nome di questi legami l’Europa doveva andare a mediare. Doveva provare da subito a dividere i contendenti, a porre come primario obiettivo quello di fermare la guerra, di fermare le stragi. E questo non soltanto adesso, ma già nel 2014. Perché, non dobbiamo dimenticarlo, quello odierno è un conflitto tra Russia e Nato sorto in territorio ucraino all’indomani della rivolta di Piazza Maidan del 2014.
Mosca da una parte e Washington dall’altra hanno iniziato a marcarsi a vicenda, a compiere errori, a preparare il terreno per l’attuale guerra. L’Europa non ha fatto nulla per evitare l’inasprimento delle tensioni. Timorosa di perdere il gas russo da un lato, incapace di reagire alla guida Usa della Nato dall’altra. Forse nessuno pensava che per davvero Putin avrebbe invaso. Ma una volta iniziata la rissa, era doveroso dividere i due litiganti.
Si è alzato invece un polverone di isteria e di urla che ha mostrato ancora una volta il poco spessore internazionale della classe politica del Vecchio Continente. L’unica vera domanda non era se stare dalla parte russa o da quella ucraina. Bensì, se stare dalla parte della pace o di quella delle guerra. Si è scelto di versare lacrime mentre gli ucraini versano il sangue, scegliendo così la guerra. Lasciando che a mediare e a lavorare per la pace siano altri attori e altri Paesi.
Nella migliore delle ipotesi, al termine della guerra l’Europa sarà ancora più emarginata dal contesto internazionale. Nella peggiore, la guerra l’avrà dentro casa. E ora che non si è scelto di lavorare per la pace, occorrerà almeno scegliere se sperare nel male minore o iniziare a prepararsi al peggio.