Nikol Pashinyan è il vero traghettatore del popolo armeno in uno dei momenti più drammatici della sua recente storia. La Rivoluzione di Velluto del 2018, capace di mobilitare quasi interamente la società civile e la diaspora, era riuscita a defenestrare la vecchia classe politica. Il celeberrimo “Karabakh Clan”, composto dai veterani della Prima Guerra del Karabakh, riciclatisi nell’arena politica armena, fu estromesso dalle cariche istituzionali. L’incontro tra Serzh Sargsyan, allora primo ministro, e lo stesso Nikol Pashinyan, aveva sancito il punto di non ritorno.
Nonostante la sconfitta militare nella Seconda Guerra del Karabakh, la riconferma di Pashinyan alle elezioni anticipate celava maldestramente il malcontento armeno ma evidenziava l’assenza di una vera concreta alternativa. L’attuale crisi umanitaria conseguente l’ultima spirale di violenza in Karabakh pare non fermare il leader armeno nel percorrere un doloroso quanto obbligato percorso su scala nazionale e internazionale.
Dopo aver pubblicamente riconosciuto il Karabakh all’Azerbaijan e la sovranità di quest’ultimo al Vertice di Granada dello scorso settembre, Pashinyan riconferma la volontà politica di raggiungere una duratura pace nella regione caucasica. Allineare l’Armenia al nuovo contesto regionale fuoriuscito dalle ultime settimane di violenza non appare tra le prerogative e strategie del governo armeno. A Granada, infatti, Pashinyan ha intensificato le relazioni con i maggiori esponenti dell’Unione Europea, palesando il tentativo di instaurare forti relazioni con Bruxelles e l’occidente in politica estera. L’arrivo degli aiuti umanitari dall’Unione Europea per la crisi degli sfollati del Karabakh e la conferma dei concomitanti aiuti militari francesi, sono succeduti alle forti critiche occidentali contro le ultime operazioni militari dell’Azerbaijan in Karabakh.
Erevan-Mosca: una storica rottura
L’avvicinamento tra Erevan e Occidente potrebbe non bastare per pacificare lo scacchiere transcaucasico. Ankara, fedele a Baku e apparentemente interessata al ripristino delle relazioni bilaterali con Erevan, potrebbe assecondare lo storico alleato verso un’ulteriore invasione dell’Armenia meridionale, parzialmente già iniziata e che la diplomazia armena definisce imminente. Mosca, anch’essa in stretta collaborazione con Baku, rimane egemonica all’interno della regione. L’Armenia prepara invece nuovi spazi di confronto: dalle sedi di giustizia internazionale alle possibili nuove relazioni con gli Stati Uniti. Dinamiche che poco aggradano a Vladimir Putin, recentemente incalzato da alcune domande sul complicato ruolo di Mosca all’interno del Karabakh. Il Presidente russo ha rilevato che il definito accordo sul Karabakh fu raggiunto da Pashinyan e Aliyev a Praga nel 2022 e Bruxelles lo scorso gennaio e che, dinanzi alla volontà dello stesso Pashinyan, Mosca non poteva agire diversamente. Tali dichiarazioni non appaiono solo una giustificazione dell’incapacità russa di agire in uno spazio di manovra assai limitato. Appaiono soprattutto un velato attacco in risposta alle dichiarazioni di Pashinyan sulla necessità di allargare l’orizzonte dei propri alleati in tema di sicurezza dinanzi alle velleità turco-azere sul “Corridoio di Zangezur” e quelle geostrategiche di Mosca.
La forte critica di Pashinyan contro la Federazione Russia rappresenta una rottura storica in ambito politico e diplomatico. Le relazioni tra armeni e russi risalgono alla rivoluzione bolscevica del 1917, quando il primo Consiglio Nazionale Armeno a Tbilisi, attuale capitale georgiana, vide l’Armata Rossa costringere le vecchie forze ottomane a indietreggiare dai territori dell’allora Prima Repubblica Armena. Ciononostante, il Trattato di Kars del 1936 vide i sovietici incapaci di fermare la conquista delle storiche cittadine armene di Kars e Ani da parte della nascente Turchia. Neanche la costituzione della Repubblica Socialista Sovietica Armena garantì agli armeni il controllo di altri due storici territori armeni, il Nakichevan e il Karabakh, entrambi consegnati all’amministrazione della Repubblica Socialista Sovietica Azera e oggi riconosciuti come de jure regioni dell’Azerbaijan.
Negli anni successivi al crollo dell’Unione Sovietica, Pashinyan si era già contraddistinto per le sue campagne di opposizione alla vecchia classe dirigente armena, allora molto vicina al Cremlino. Condotto sporadicamente in carcere e marginalizzato politicamente, solo la Rivoluzione di Velluto del 2018 lo condusse verso il governo del Paese.
Nello storico faccia a faccia con il suo alter ego Ilham Aliyev alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco del Febbrario 2020, Pashinyan difese (malamente) le istanze armene sul Nagorno-Karabakh e promise, a porte chiuse, di impegnarsi sulla risoluzione del conflitto solo dopo aver politicamente stabilizzato l’Armenia. La sua leadership incuriosiva il Cremlino, e riempiva di speranze Baku, fino ad allora incapace di risolvere la situazione attraverso i meccanismi internazionali costantemente compromessi dalle vecchie gerarchie politiche del “Karabakh Clan”. Furono solo alcune dichiarazioni di Pashinyan sul “Karabakh facente parte dell’Armenia” che condussero alla Seconda Guerra del Karabakh nell’autunno del 2020. Gli esiti di quest’ultima parvero subito riavvicinare Erevan e Mosca grazie all’operazione di mantenimento della pace dell’esercito russo come unico garante della sicurezza nella comunità armena nel Karabakh. I rapporti con Mosca, però, erano già incrinati dai crescenti malumori della società civile e da una posizione subalterna di Erevan nel trilaterale con Baku e Mosca. Lo sforzo bellico in Ucraina ha impedito le forze di pace russe di fronteggiare le continue provocazioni azere anche lungo il confine della Repubblica di Armenia. Tale incapacità facilitava altre iniziative orchestrate da Baku: la protesta ambientalista degli attivisti (e soldati) azeri lungo la strada che da Stepanakert conduceva verso l’Armenia, l’apertura della dogana militare proprio sul confine armeno e il blocco del Corridoio di Lachin durante l’ultimo anno.
Nuovi alleati?
Nelle ultime settimane Pashinyan ha confermato che Mosca non può più essere considerata come unico attore garante della sicurezza nazionale armena. Parole intrise di significato politico che potrebbero riorganizzare le future dinamiche della regione transcaucasica. L’arrivo della diplomazia americana in Armenia rimane il più forte segnale di rottura tra Erevan e Mosca. Nell’anniversario del Genocidio armeno del 2021, il Presidente americano Joe Biden utilizzava per la prima volta la parola “genocidio”, mentre l’esercitazione militare “Eagle Partner 2023” ha sancito una cooperazione con Washington. Rimane questo il vero movente dell’ultima escalation in Karabakh, quella decisiva, dove Putin e Aliyev hanno stretto un’ancora più salda e duratura cooperazione regionale. Il boicottaggio della diplomazia azera al vertice europeo di Granada, dove la presenza della Francia e il mancato invito alla Turchia hanno condotto il Presidente azero a boicottare l’evento, traccia l’ennesima linea di rottura e demarcazione all’interno del Caucaso meridionale.
L’Iran rimane attenta agli sviluppi del “dopo conflitto”, dichiarando che qualsiasi cambiamento dei confini nazionali armeni provocherebbe una forte reazione dell’esercito nazionale. L’attuale guerra tra Hamas e Israele potrebbe momentaneamente allontanare Tel Aviv dalla regione caucasica, dove i partenariati con l’Azerbaijan sembrano poter destabilizzare la parte settentrionale dell’Iran in futuro. Le relazioni tra Teheran e Erevan rimangono salde, e possibilmente strategiche in un possibile nuovo asse regionale dove l’India potrebbe intervenire strategicamente.
La seconda rivoluzione di Pashinyan appare quindi appena iniziata. Il costo da pagare rimane altissimo per il popolo armeno: la perdita definitiva del Karabakh e migliaia di sfollati da integrare, la perdita dello storico alleato, Mosca, e l’inizio di un possibile quanto difficile percorso di riconciliazione con Baku e Ankara, all’interno di un contesto regionale ancora sfavorevole, nonostante la conclusione della guerra. Pashinyan non dovrà solo riuscire a collaborare con gli storici nemici regionali e ribattere alle loro critiche sul tentativo armeno di sabotare il percorso di pace. L’ex giornalista e attivista armeno dovrà anche convincere i partner occidentali a investire in un Paese che rimane membro del Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), ospita una base militare russa, e la cui sovranità potrebbe essere nuovamente messa in discussione da coloro i quali dicono di garantire la prosperità del Caucaso meridionale.