La Festa dei Morti rappresenta una ricorrenza sempre molto sentita in tutta la Sicilia e anche Agrigento e provincia non fanno eccezione.
Da qualche giorno, infatti, si avverte l’atmosfera tipica di questo periodo e si ricordano le tradizioni legate a questa festa. Così, mentre in tutta Italia prende sempre più piede Halloween, nell’agrigentino la tradizione del 2 Novembre è ancora molto forte, anche se la festa dalle origini anglosassoni esercita comunque un certo fascino sui più piccoli.
Secondo la tradizione, tale ricorrenza risale al X secolo d. C., quando già si credeva che nella notte tra l’1 e il 2 novembre i defunti visitassero i loro cari ancora in vita per portare doni ai bambini. Tutt’oggi questa usanza è presente, soprattutto nei paesi della provincia, dove non di rado si tengono per l’occasione delle fiere (la “Fera di li morti”).
Obbligatorio resta, in questi giorni, l’assaggio dei dolci tipici della festa: i tetù, le ossa di morto, la frutta martorana e per i più golosi la pupaccena o pupa di zucchero, ovvero i pupazzi di zucchero a forma di cavalieri e dame, così chiamati probabilmente perché celebravano la “cena sacra” dei morti. Talvolta, come accadeva in passato, queste dolcezze vengono regalate ai bambini nel cosiddetto “cannistru”, un cesto che al mattino i genitori fanno trovare ai bambini, dicendo loro che è un dono portato dai morti. Inoltre, fino a qualche tempo fa, per la commemorazione dei defunti le famiglie siciliane portavano in tavola “i favi a cunigghiu”, ovvero fave bollite e condite con olio e origano, a “murtidda”, cioè piccole bacche di mirto, e i “cruzziteddi”, ovvero le castagne secche.
Oggi a ricordare che sta per arrivare la Festa dei Morti ci pensano anche i social con la condivisione di foto e ricordi e, in particolare, con la diffusione dell’ormai famosissimo racconto di Andrea Camilleri su questa ricorrenza.
Lo scrittore ha raccontato la festa dedicata ai defunti ne “Il giorno che i morti persero la strada di casa”, di cui di seguito riproponiamo un estratto: “Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio”.