In un’affollata aula dell’Università di Graz nell’estate del 2018, durante una conferenza sul futuro dell’Unione Europea nei Balcani occidentali, una giovane studentessa macedone interruppe la discussione di esperti e professori con una domanda tanto semplice quanto difficile nella risposta: “Cosa cambierà veramente per i miei connazionali dopo le riforme richieste da Brussels?”
Quella domanda celava forti dubbi su come la nuova denominazione in Macedonia del Nord prevista dall’allora imminente accordo di Prespa, avrebbe realmente cambiato il futuro del suo Paese. Una domanda palesemente critica nei confronti della strategia europea verso i Balcani occidentali. A distanza di pochi giorni dalla decisione del Consiglio Europeo di avviare i negoziati d’adesione con Ucraina e Moldavia, riconoscendo ai due Paesi lo status di candidato ufficiale, la domanda della studentessa macedone ritrova la sua importanza: cosa cambierà veramente? Qual è il futuro che l’Unione Europea prefigura per una regione polarizzata politicamente, le cui generazioni hanno smesso di dialogare fra loro, dilaniata da conflitti nelle sue regioni più periferiche?
Le politiche di allargamento non hanno mai seguito un percorso coerente e lineare. Nel 2004, l’ingresso di ben otto Paesi della vecchia europea del socialismo reale (insieme a Cipro e Malta) seguì quello della Bulgaria e Romania nel 2007. Una decisione che vide i meccanismi di cooperazione e verifica evidenziare importanti lacune nei due Paesi dei Balcani orientali subito dopo il loro ingresso nella famiglia europea; da qui l’esclusione dall’area Schengen, ancora oggi un miraggio per milioni di bulgari e rumeni. Riformulare il processo decisionale sulle politiche di allargamento divenne prerogativa fondamentale. La Croazia, oggi Paese dell’Area Schengen e della moneta unica, prestò molta attenzione alle precedenti sfide regionali per evitare il ripetersi di simili problematiche. Dall’esperienza croata emersero nuove prospettive per la regione, e un nuovo modo di vivere il percorso di avvicinamento all’Unione Europea. Grazie a un continuo coinvolgimento delle società civili, le politiche di allargamento divennero strumento e piattaforma democratica dove rafforzare le voci critiche contro i governi nazionali e accelerare la democratizzazione dei vari Paesi.
L’ultima decisione del Consiglio europeo di aprire i negoziati con Ucraina e Moldavia appare un atto dovuto dopo i quasi due anni di sostegno incondizionato alla stessa causa ucraina. Una decisione sicuramente coraggiosa se connessa agli altri percorsi di integrazione di Paesi come la Georgia, e degli stessi Balcani occidentali. Un possibile percorso negoziale che non vedrà Brussels confrontarsi solamente con le diplomazie dei nuovi candidati, ma molto probabilmente anche con quella moscovita. Un ingresso dell’Unione Europea – che Jean Claude Junker descriveva come un percorso ventennale nel 2016 – potrà avvenire solo dopo un totale ripristino delle sovranità nazionali oggi negate dalle occupazioni russe nel Donbass, Transinistria, Abkhazia e Ossezia del Sud. Dialogare con Mosca appare una possibilità concreta per ridesignare un piano di ricostruzione politica dei territori contesi. Un percorso spinoso sul piano politico, soprattutto se intrapreso fuori gli schemi retorici del blocco occidentale nonostante qualche apertura malamente espressa (caso Meloni/Kuznetsov/Stolyarov) o apertamente contestata (caso ungherese) verso un possibile ripristino dei tavoli diplomatici con il Cremlino.
Tra le voci più critiche sulle ultime scelte del Consiglio europeo, quelle dei cittadini bosniaci: la Bosnia Erzegovina rimane solo un potenziale candidato nonostante le ben quattordici importanti riforme (delle otto richieste da Brussels) concluse dal 2016 ad oggi. Dopo che gli echi della guerra in Ucraina ne avevano scosso l’intera popolazione, oggi il Paese si chiede cosa sarebbe cambiato se, come appena avvenuto per l’Ucraina e Moldavia, quest’ultimo avesse ricevuto lo status di candidato già nei primi anni novanta, in pieno conflitto?
Il principale rischio rimane quello di rinforzare i centri nevralgici della stabilitocrazia, un fenomeno paradossalmente sviluppatosi maggiormente nel percorso di avvicinamento all’UE, le cui cause si trovano anche nell’immaturità delle classi dirigenti locali nell’affrontare il percorso di integrazione in UE parallelamente a quello di transizione democratica ingolfata dai nazionalismi etnici. Negli anni la stabilitocrazia ha prodotto un dilemma per le giovani democrazie balcaniche: proporre un cambiamento “dal basso”, sfiduciando le classi dirigenti che hanno però garantito un avanzamento, seppur lento, verso l’Unione Europea, o continuare a fidarsi delle stesse classi dirigenti che, sebbene corrotte e incapaci di governare, appaiono le uniche in grado di raggiungere un posto in EU?
Appare questo il dilemma della Serbia, Paese incapace di maturare politicamente e avviare un serio percorso di autoriflessione (mai iniziato!) dal periodo post-bellico ad oggi. La stabilitocrazia serba ha accentrato l’intero sistema di potere intorno all’attuale Presidente, Aleksandar Vučić, fuoriuscito ancora una volta vincente dalle elezioni dello scorso fine settimana. Un Paese incapace di realizzare la perdita del Kosovo – largamente discusso nell’ultima campagna elettorale e ufficialmente descritto come “regione meridionale”. L’immunità garantita a Vučić non appare solamente endemica. L’ambiguità internazionale di Belgrado non ha mai provocato una vera e forte reazione da parte di Brussels e il tentativo di assecondare proprio le istanze del presidente serbo per cercare di allontanare il Paese dalle mire moscovite pare non aver pagato.
Belgrado ha poi rappresentato un ostacolo alla riconciliazione dell’intero spazio post-jugoslavo. Vučić ha negli anni ambito alla costruzione di uno srspki svet (spazio serbo), sostenendo lo spettro dei separatismo in Bosnia, ostruendo la democrazia in Montenegro attraverso la Chiesa ortodossa e non riconoscendo la statualità del Kosovo. Brussels ha sempre mantenuto una sua difformità di azione nei confronti di Belgrado, a tratti discriminatoria nei confronti di Kosovo e Bosnia Erzegovina in ambito europeo. Nonostante la retorica della politica serba rassomigli a quella russa nei confronti dell’interno spazio post-sovietico, Brussels appare sorda agli allarmi lanciati da Pristina e dalle maggiori organizzazioni della regione. La creazione dell’Associazione delle Municipalita’ Serbe in Kosovo – possibile accordo sponsorizzato nel “Brussels Dialogue” – potrebbe pregiudicare non solo la statualità kosovara, ma anche aiutare la politica serba a interferire nel processo (quasi invisibile ma presente) tra cittadini di etnia serba e albanese.
Simile retorica utilizzata dalla Bulgaria nei confronti della Macedonia del Nord. La proposta francese ha paradossalmente garantito a Sofia la possibilità di interferire nelle prossime riforme costituzionali a Skopje, come nel caso del riconoscimento di una storica minoranza bulgara all’interno del Paese. Nonostante le rassicurazioni bulgare, il clima rimane assai teso tra i cittadini macedoni.
Un approccio multipolare all’interno dell’Unione stessa, capace di condurre le diverse famiglie politiche europee a compromettere la loro coerenza nazionale. La forte collaborazione tra il Primo Ministro italiano e quello albanese, la prima fortemente legata alla destra italiana e il secondo alla famiglia dei socialisti, potrebbe essere un precedente da osservare nei mesi che anticipano il voto europeo del 2024.
Le politiche di allargamento dell’Unione Europea confermano quest’ultima essere un animale politico lento, incoerente sul piano geopolitico, i cui meccanismi rimangono complessi anche per gli addetti ai lavori. Forse Brussels potrà mostrarsi abile nel (voler) cambiare tutto in politica estera dinnanzi alle sfide orientali, magari senza (riuscire a) cambiare niente alla fine. O come spesso ripetuto nelle kafane balcaniche, col tipico pessimismo che da anni impervia nella regione, quando tutti faranno parte dell’Unione Europea, quest’ultima avrà già cessato di esistere.