Aziz Abu Sarah è un inviato palestinese di National Geographic, uno dei tanti palestinesi impegnati in giro per il mondo. Le sue parole su Twitter appaiono abbastanza significative: “Sono un palestinese che non celebra le azioni di Hamas. È una questione personale, è il dolore dei miei amici ebrei. Sono terrorizzato per la mia famiglia e i miei amici a Gaza e in Cisgiordania”. Sempre sul social spiega che tra i suoi affetti, ci sono sia i parenti che vivono nei territori palestinesi che amici israeliani che risiedono nelle città sotto il bersaglio dei razzi di Hamas.
Le sue frasi spiegano molto bene perché quanto accaduto sabato nulla ha a che vedere con la causa palestinese. Entrare di prepotenza e con armi alla mano nelle case di civili inermi, è semplicemente un atto di barbarie. Impossibile da giustificare, impossibile da ancorarlo a un preciso fondamento politico.
Molti, soprattutto in Europa, sembrano abbastanza confusi. Sia tra membri della diaspora palestinese che tra i movimenti pro Palestina, vengono agitate in piazza le bandiere palestinesi. Come se Hamas possa aver agito in nome e per conto dell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) o come se le azioni del movimento islamista fossero da ricollocare in continuità con quelle dell’Olp, di Arafat o al Fatah, il partito un tempo guida della causa palestinese. Nulla di più errato: Hamas è in lotta da tempo con i successori di Arafat, si tratta di un movimento fondamentalista, molto distante anche dalla laicità di al Fatah.
Quanto compiuto dai terroristi in Israele sabato scorso altro non è che una barbarie. Una delle più crudeli attuate negli ultimi anni, una di quelle non può trovare giustificazione alcuna. Perché non si sta parlando di politica o di rivendicazioni, ma di gente entrata armata di fucili e martelli nelle case di persone che stavano ancora dormendo. Nessuna causa politica può mai giustificare uccidere in questo modo i civili, massacrarli davanti i propri affetti, trascinarli via con la forza lontano da casa ed esibirli come trofei davanti a una folla che, in quanto tale, non ha perso tempo a infierire con linciaggi, sputi e vessazioni.
Ho ancora davanti gli occhi il video che ritrae la giovane tedesca Shani Louk sopra un carro a Gaza. Lei è una delle tante massacrate al famoso rave nel deserto, dove i terroristi hanno iniziato a uccidere dopo essere planati dall’alto con dei deltaplani motorizzati. In quel carro il suo volto era ricoperto dal sangue, il suo corpo nudo e umiliato, c’è chi infieriva dando pedate, un tizio che stringeva i suoi capelli le ha pure sputato. È notizia delle ultime ore che Shani Louk è viva e sarebbe ricoverata in un ospedale di Gaza. Da un lato è un bene, si può ancora sperare che la ragazza possa tornare a casa. Dall’altro però, stringe il cuore a pensare che la giovane possa aver percepito l’orrore attorno a sé, l’esibizione della sua sofferenza davanti una folla senza controllo, il terrore di finire i propri giorni lontana da casa e su un’anonima strada impolverata. E il tutto dopo essere uscita da casa soltanto per andare a ballare.
Ad avvisare la famiglia di Shani Louk delle sue condizioni, sarebbe stata una fonte ospedaliera palestinese. Voglio pensare a qualcuno che di quella giovane ha avuto pietà, ha provato empatia e, nonostante i raid su Gaza, ha trovato il tempo di rassicurare che è ancora in vita. Qualcuno quindi che ha percepito quell’oltraggio come una barbarie. Perché il punto è proprio questo: in occidente come in medio oriente, se non si condanna la barbarie è forte il rischio di tornare indietro di decenni e di perdere il contatto con il senso di umanità. E, soprattutto, di giustificare in futuro simili atti in nome di chissà quale lotta politica. La barbarie è barbarie. Punto.