Prima il Marocco e poi la Libia. A distanza di 24 ore, il nord Africa si è ritrovato ancora più vulnerabile. A due passi dai confini d’Europa, un forte terremoto ha distrutto interi villaggi e paesi ai piedi dell’Atlante. Con le autorità di Rabat costrette ad affrontare la più grave emergenza per il Paese nella storia recente. Poche ore dopo, in una Cirenaica già provata da anni di conflitto e instabilità il ciclone Daniel ha sommerso una città come Derna.
Qui, prima del disastro, abitavano 80.000 cittadini. Ne sarebbero morti, almeno stando alle dichiarazioni sia delle autorità dell’est della Libia che dell’ovest (il Paese, come si sa, è ancora diviso e spaccato in due a livello politico), 10.000. E forse anche di più, visto che la conta dei danni non è finita ed è resa difficile sia dal disastro che dalla fragilità della macchina dei soccorsi.
Le due calamità ricordano ancora una volta la delicatezza dell’area del vicino Mediterraneo. Spesso a ricordarlo, almeno nel caso della Libia, sono le guerre e le frequenti tensioni militari. E a rimarcarlo sono i continui sbarchi che soprattutto quest’anno si sono registrati a Lampedusa. Adesso è anche la natura a lanciare importanti segnali.
Oggi più che mai non ci si deve dimenticare dell’altra parte del Mediterraneo. In questa fase per un tanto semplice quanto perentorio dovere di solidarietà verso popolazioni rimaste senza nulla. Nell’Atlante come in Cirenaica, ci sono migliaia di persone che piangono i propri morti e aspettano anche un singolo aiuto per tornare a vivere. Ma anche dopo l’emergenza, l’Italia in primis deve ricordarsi del proprio ruolo sia nei Paesi colpiti dalle calamità che nell’intera regione. Occuparsi del Mediterraneo vuol dire occuparsi delle aree più vicine e delle zone cruciali per il mantenimento di una stabilità che, soprattutto di questi tempi, appare sempre più una chimera.