Aleksandar Vučić e Ilham Aliyev, due facce della stessa medaglia. Da anni saldamente al potere della Serbia e dell’Azerbaijan, i due presidenti condividono lo stesso pedigree politico di molti altri autocrati europei e non. Il padre di Ilham Aliyev, Heydar Aliyev, proprio come Vladimir Putin in Russia, apparteneva alla generazione di funzionari del KGB sopravvissuti al collasso sovietico e riciclatisi in politica subito dopo. Come Viktor Orban, invece, Aleksandar Vučić ha da anni accentrato il potere intorno ai suoi uomini più fidati e corrotti, assumendo una posizione sempre più egemonica anche all’interno della società civile.
Ciononostante, Vučić e Aliyev sono riusciti a ritagliarsi un ruolo centrale in un’Europa in affanno economico dopo la pandemia e divisa sulla guerra in Ucraina. Sono proprio le guerre ad aver determinato la scalata al potere di Vučić e Aliyev nei rispettivi Paesi. Quella del Nagorno-Karabakh in Azerbaijan permise a Heydar Aliyev di approfittare della disfatta militare azera degli anni novanta per instaurare la sua dinastia familiare. Quelle in Bosnia e Kosovo permisero invece al giovane Aleksandar Vučić di iniziare la sua ascesa politica, prima come delfino di Vojislav Šešelj, condannato nel 2018 per crimini contro l’umanità e con cui non sono mai stati interrotti rapporti personali, e poi come Ministro delle Informazioni di Slobodan Milošević, responsabile delle atrocità commesse contro la popolazione albanese.
A distanza di decenni non sorprendono che le richieste di “un ritorno dell’esercito serbo in Kosovo” arrivino dai luoghi più estranei alla politica, come quello delle frange più estreme del tifo sportivo, in realtà assai connesso con le istituzioni di Belgrado. Non appare neanche sorprendente la bramosia di potere di Ilham Aliyev, capace di monopolizzare il complesso percorso di riconciliazione con l’Armenia e gli armeni del Karabakh dopo la vittoria militare del 2020. L’ennesima crisi umanitaria nel Caucaso viene oggi strumentalizzata proprio da Aliyev e dai ministri del governo azero, capaci di evidenziare le atrocità dell’occupazione armena e nascondere i vari crimini dell’esercito azero.
All’interno del Nagorno-Karabakh, di cui Aliyev oggi sembra non riconoscerne l’esistenza, le scorse proteste ambientaliste supportate strategicamente avevano l’obiettivo di pressare psicologicamente la popolazione armena e ridicolizzare le forze di sicurezza russe dispiegate proprio a difesa degli armeni. Mentre l’attuale blocco del Corridoio di Lachin pare aver portato alla prima morte per malnutrizione, l’ex Procuratore capo della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, ha addirittura parlato di un genocidio invisibile dopo l’aut-aut di Aliyev agli armeni: o l’accettazione della cittadinanza azera (mai ottenuta nella storia dell’Azerbaijan indipendente) con successivo smantellamento delle de facto istituzioni di autogoverno (fuoriuscite dall’autonomia concessa al Nagorno-Karabakh durante l’Unione Sovietica), o lasciare per sempre la regione.
La presidenza di Ilham Aliyev non ha solamente consolidato il proprio potere attraverso la guerra. La dinastia familiare degli Aliyev-Pashayev inizia apertamente a ramificarsi dopo il 2003, anno in cui Ilham Aliyev, già presidente della SOCAR (compagnia petrolifera di stato) vince le elezioni (giudicate dall’OSCE né libere né regolari), diventando presidente del Paese. Soprannominata come “famiglia dell’offshore”, gli Aliyev costruiscono una fitta ragnatela politica ed economica capace di determinare una forte presa sulle istituzioni azere. I maggiori indici internazionali registrano da anni violazioni sistematiche al diritto di espressione, assemblea e associazione in un Paese, l’Azerbaijan, definito come un consolidato regime autoritario e “non libero” sul campo dei diritti politici e civili. La moglie del Presidente, Mehriban Pashayeva, diventerà vice Presidente dell’Azerbaijan dopo essere eletta in Parlamento e nonostante le accuse anche in ambito internazionale. La sorella, Nargiz Pashayeva, cognata del Presidente, diventerà invece rettore della sede distaccata dell’Università statale di Mosca a Baku; il suocero di Aliyev, Arif Pashayev, gestirà l’accademia dell’aviazione azera, mentre il fratello di quest’ultimo, Hafiz Pashayev, diventerà ambasciatore dell’Azerbaijan negli Stati Uniti per oltre 13 anni. Lo strapotere dinastico va oltre i confini nazionali. Non vi è scandalo internazionale in cui il nome del presidente azero non compaia: dai Panama Papers all’acquisto poco trasparente di proprietà a Londra, dagli scandali sulla “caviar diplomacy” in Italia e all’interno delle istituzioni europee.
Simile scenario alla Serbia di Aleksandar Vučić, nonostante quest’ultima sia riconosciuta come un “regime ibrido”, “parzialmente libero” e all’interno del quale strumenti di sorveglianza biometrica sono stati recentemente introdotti grazie alla cooperazione con i partner commerciali cinesi della Huawei.
Nel tentativo di sottrarre Belgrado all’influenza russa e togliere spazio di manovra proprio a Mosca e Pechino nelle zone più fragili della periferia europea, Vučić appare oggi un partner affidabile e legittimo agli occhi dei funzionari dell’Unione Europea e altre organizzazioni euro-atlantiche. Alla luce delle recenti tensioni nel Kosovo settentrionale – regione a maggioranza serba – le critiche occidentali sono state indirizzate nei confronti di Pristina per non aver implementato delle alternative allo scenario seguente alle ultime elezioni nella regione. Critiche alquanto bizzarre dinanzi l’atteggiamento di Vučić che ha riconfermato di non voler normalizzare le relazioni con il Kosovo riconoscendone la statualità. La decennale strategia di innescare tensioni proprio all’interno del Kosovo non è l’unica, ma si sviluppa parallela a quella di nazionalismo regionale capace di premiare tesi negazioniste sul Genocidio di Srebrenica e fomentare l’alleato Milorad Dodik nei suoi piani di scissione in Bosnia.
Nei mesi successivi all’invasione russa dell’Ucraina, alcuni analisti politici serbi riportarono la notizia di un Vučić a conoscenza dei piani del Cremlino. Una volta conquistata Kiev dall’esercito russo, Belgrado avrebbe lanciato una sua offensiva verso il Kosovo e la Bosnia, all’interno di un quadro internazionale da sconvolgere e ridisegnare a proprio favore. Nello stesso periodo, The New York Times Magazine parlava degli stretti legami tra la presidenza serba, i servizi di polizia e il mondo criminale, con a capo Veljko Belivuk. Belgrado appare quindi la capitale di dell’hooliganismo e della criminalità organizzata, in un Paese impantanato nella sua ambiguità geopolitica e con velleità imperialiste nel vecchio territorio jugoslavo, con una società civile incapace di riflettere sulla storia recente della Serbia.
Al coinvolgimento di Serbia e Azerbaijan nelle sfide europee dei prossimi decenni segue il mutismo delle istituzioni occidentali sui rischi delle possibili crisi umanitarie e conflitti regionali. Anche l’Italia rimane fedele e consenziente al potere costituito di Vučić e Aliyev. Roma è il terzo partner commerciale della Serbia grazie a un interscambio commerciale delle oltre 1.200 aziende con una quota di capitale italiano all’interno del Paese. Dall’Italia, la Serbia importa soprattutto equipaggiamento militare per il valore di $2.03 milioni di dollari sostenuto dagli interessi dell’export di armi. Un scenario contraddittorio per un Paese il cui governo si pone nel ruolo di mediatore nella tanto sperata stabilizzazione balcanica. In Azerbaijan, invece, l’Italia rimane primo partner commerciale con circa il 51.9% delle esportazioni azere di greggio e petrolio dal 2003, anno dell’ascesa a potere di Aliyev. Nel momento in cui migliaia di armeni cristiani vengono isolati dalla politica militare azera, il governo al momento non esprime nessuna critica al Presidente Aliyev né alcuna preoccupazione per l’odierno scenario.
Silenzi e contraddizioni che non riguardano solo l’Italia ma soprattutto l’Unione Europea e l’intera Alleanza Atlantica. Se per il Dipartimento di Stato americano la Serbia non è la causa dei problemi nei Balcani, ma solo una conseguenza dei fenomeni politici all’interno della regione, per l’Unione Europea stipulare accordi con Baku rimane di fondamentale importanza strategica dopo aver interrotto ogni relazione con Mosca. Come se l’Azerbaijan e la Russia – ergo, le leadership di Aliyev e Putin – non fossero uno la copia dell’altro.
Verrebbe quindi da chiedersi come una tale strategia di assentimento nei confronti di certe figure internazionali possa ripagare sul medio e lungo termine senza alcuna ritorsione. Appare evidente, invece, che l’Occidente continui a ritorcersi su se stesso, in una spirale di contraddizioni e interessi di pochi che, come già avvenuto in Africa e Asia, dalla Libia all’Afghanistan, produrrà gli effetti indesiderati di cui potremmo nichilisticamente lamentarci.