All’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, molte figure istituzionali manifestarono la loro preoccupazione per il ritorno della guerra in Europa dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Qualche commentatore utilizzava, continuando a farlo oggi, l’intervento militare in Kosovo del 1999 come parallelismo storico, reiterando paradossalmente la retorica del Cremlino. L’intervento della comunità internazionale in Kosovo rimane infatti uno degli esempi maldestramente sciorinati da analisti e commentatori in piena ansia da prestazione.
L’immagine del ritorno della guerra in Europa ha così distorto la percezione della memoria storica sulla stessa guerra russa contro l’Ucraina, già iniziata dopo gli eventi di Piazza Maidan nel 2014, nonché quella dell’intera opinione pubblica europea. Le guerre in Jugoslavia, iniziate nel 1991 dopo l’indipendenza della Croazia, concluse dopo il conflitto macedone-albanese grazie agli Accordi di Ohrid del 2001, appaiono oggi dimenticate. Un decennio attraverso il quale l’Europa assistette alle circa 140.000 morti e ai 4 milioni di sfollati interni e rifugiati fuggiti dal territorio jugoslavo. Statistiche spesso soggette ai revisionismi dei nazionalismi regionali, sempre più influenti nel contesto europeo nel (voler) liquidare quella drammatica pagina della storia europea.
Luglio rimane il mese del ricordo di uno tra gli eventi piu crudeli e simbolici di quelle guerre: il Genocidio di Srebrenica. Perpetuato dai militari serbi nell’estate del 1995 nei confronti della popolazione musulmana nella Bosnia orientale, quello di Srebrenica rimane un genocidio la cui memoria ha negli anni mobilitato migliaia di superstiti, cittadini comuni e attivisti di tutto il mondo nel commemorare le 8.327 vittime uccide dall’11 al 16 luglio del 1995.
La Marcia della Morte
Nella virale di violenza della guerra bosniaca (1992-1995), la risoluzione 819 dell’Onu del 19 aprile 1993 garantiva la protezione internazionale a Srebrenica e alla sua popolazione civile da parte di circa seicento unità della compagnia olandese delle UNPROFOR. Una campagna di disarmo fu subito iniziata dai caschi blu all’interno della cittadina e nelle zone circostanti.
La furia di Ratko Mladić, allora generale dell’esercito serbo in Bosnia, non si fermò davanti alla decisione dell’Onu. Tra il 9 e l’11 Luglio 1995, un’offensiva militare dell’esercito serbo condusse all’occupazione di Srebrenica e del checkpoint Charlie delle Nazioni Unite a Potočari. La non-risposta militare rimane oggi uno degli eventi più contestati. Le operazioni aeree contro l’esercito serbo di Mladić, richieste disperatamente dal colonnello olandese Thom Karremans a Srebrenica, videro alcuni F-16 ritornare in Italia per rifornimento, mentre le attività di soli due aerei non riuscirono a rovesciare il destino che Mladić e le sue truppe avevano deciso per “i turchi” della città. Alcuni elicotteri americani non riuscirono inspiegabilmente a trovare la strada verso Srebrenica, all’interno della quale gli uomini tra i 12 e 77 anni furono strappati ai loro affetti per essere subito dopo uccisi con la scusa di interrogazioni.
Da lì a poco, i militari serbi condurranno ulteriori arresti sommari e fucilazioni di massa nei villaggi intorno a Srebrenica. A Kameničko Brdo, Ravni Buljim, nella strade tra Konjević Polje e Nova Kasaba fino a Sandići, lungo le rive del fiume Jadar, laddove era già iniziata la “marcia della morte” di tutti coloro i quali cercavano disperatamente una via di fuga. Alcuni pullman strapieni di civili, riempiti per false evacuazioni verso Tuzla, furono invece condotti alla morte, come nei villaggi di Cerska e Velići. A Kravica, circa un altro migliaio di civili furono rinchiusi dentro il magazzino dell’azienda agricola locale e uccisi con delle granate lanciate all’interno dello stabile. Altre cinquemila persone radunatesi sulle alture di Udrč furono individuate e colpite con l’utilizzo di armi chimiche non convenzionali. Molti altri che avevano deciso di lasciare la zona attraverso i boschi furono ugualmente intercettati e uccisi tra le cittadine di Zvornik and Bratunac.
Il 14 Luglio, un barlume di speranza: l’arresto da parte di alcuni civili in fuga del comandante serbo Zoran Janković nei pressi di Snagovo, condusse a un cessate il fuoco. La marcia dei civili riuscì a continuare verso Križevačke Njive per raggiungere Baljkovica e subito dopo il villaggio di Nezuk.
Il 16 luglio 1995 la “marcia della morte” si concluse. Sono 8237 le vittime riconosciute attraverso analisi forensi e l’aiuto dei sopravvissuti. Si stima che tra le 12 e 15 mila bosniaci musulmani fuggirono da Srebrenica. Alcuni si consegnarono ai gruppi paramilitari serbi, confusi dall’utilizzo delle uniforme delle Nazioni Unite utilizzate dagli stessi per ingannare i fuggitivi. Una marcia della morte lunga ben 128 km lungo le zone più interne e impervie da percorrere, tra boschi e alture, la cui bellezza paesaggistica stride con il ricordo degli eventi di quel luglio 1995.
Tra giustizia e post-memoria
Srebrenica ospita oggi il Memoriale e Cimitero per le Vittime del Genocidio, luogo simbolo dell’identità bosgnacca e della rinascita di tutti quei cittadini musulmani della Bosnia riusciti a sopravvivere all’orrore della guerra. La cittadina rimane beffardamente sotto il controllo politico-amministrativo della Srpska Republika, l’entità federale serba che riuscì a ottenere un vasto controllo territoriale della Bosnia dopo gli accordi di Dayton del novembre 1995.
I continui ritrovamenti di fosse comuni e il riconoscimento di ulteriori vittime continuano a motivare attivisti della società civile, superstiti e alcuni (purtroppo pochi) politici locali nel tortuoso percorso di riconoscimento di verità e giustizia. Grazie al lavoro del Tribunale Penale Internazionale per i Crimini dell’Ex-Jugoslavia (ICTY), nel Febbraio del 2007 la Corte Internazionale di Giustizia riconosce gli eventi del luglio 1995 a Srebrenica come caso di “genocidio” contro una precisa comunità etnico-religiosa.
Tra i colpevoli non solo il generale Ratko Mladić e e Radovan Karadžić, allora presidente del cantone serbo in Bosnia Erzegovina, ma anche il governo olandese. La Corte d’Appello dell’Aja del 27 giugno 2017 riconobbe come colpevole proprio il governo olandese per la morte di trecento musulmani bosniaci costretti dalla UNPROFOR a lasciare il compound militare sotto pressione dei militari serbi. Una posizione definitivamente confermata alla Corte Suprema olandese il 19 luglio 2019, nonostante la revisione al ribasso della sentenza precedente.
Il coacervo di accuse e colpe mai espiate da parte dei carnefici e presunti collaboratori continuano a ostacolare il percorso di riconciliazione e giustizia non solo in Bosnia, ma soprattutto in Serbia. Non solo chi sopravvisse a Srebrenica e agli altri campi di concentramento nel nord-ovest della Bosnia, ma anche le seconde generazioni nate e cresciute fuori dalla Bosnia Erzegovina tornano a Srebrenica nei mesi estivi per ritrovare le loro radici e ritrovarsi con chi, tra parenti, amici e persone varie, sopravvisse alla guerra. Moltissimi giovani della diaspora organizzano eventi nelle loro città balcaniche e fuori dalla Bosnia: marce della pace, campagne di solidarietà, convegni universitari, rappresentano quei tentativi di riconciliazione e verità storica che, nonostante le difficoltà, cercano di costruire una memoria condivisa.
Srebrenica rappresenta quell’Europa periferica così centrale nella costruzione di un’identità europea da essere costantemente dimenticata da molti. Un Paese europeo, la Bosnia, ricaduto nella paura di un nuovo conflitto interno dopo lo scorso febbraio 2022. I traumi di Srebrenica, non ancora superati, sono quelli di un’Europa tanto disinteressata nel ricordo del passato quanto bulimica nell’utilizzo della storia per trovare giustificazioni acritiche agli eventi del presente.
La guerra russa contro l’Ucraina pare aver consegnato la memoria delle vittime Srebrenica all’oblio. Oggi la Bosnia continua a essere destabilizzata dai costanti proclami di separatismo serbo e dal suo nazionalismo intrinseco alle sue istituzioni. La Bosnia come il Kosovo, minacciate da Belgrado e dalla sua interferenza politica; il genocidio di Srebrenica come il massacro di Račak; il sogno imperiale di Vladimir Putin in Ucraina come quello della “Grande Serbia” di Aleksandar Vučić nei Balcani. Storie che si ripetono dinanzi all’incapacità europea di ricordare e discernere le vittime dai carnefici, in un’Europa le cui posizioni di comodo sembrano potersi ritorcere contro, senza nessuna spiegazione in mancanza di una memoria storica.