“Dove siete voi, c’è pace?”

Il cartello di protesta di alcuni giovani armeni imbarazza le forze di pace russe in Nagorno-Karabakh e pare anticipare la debacle del Cremlino nelle vecchie e contestate periferie sovietiche

Articolo scritto da Francesco Trupia in collaborazione con Denise Serangelo

La guerra in Ucraina sta evidenziando una complessità che va oltre il piano prettamente militare. Il campo di battaglia si è traslato, per ambo le parti, dal teatro operativo verso una dimensione più mediatica, laddove piccole conquiste vengono idealizzate come grandi risultati tattico-strategici senza però alcun cambiamento sostanziale nelle rispettive posizioni sul terreno.

Ciononostante, la percezione regionale e globale della potenza militare di Mosca non è rimasta inalterata in quest’ultimi tredici mesi. Dinnanzi all’incapacità russa di raggiungere i prefissati obiettivi militari in Ucraina, si aprono diversi piani di analisi: la perdita di credibilità militare del Cremlino sul piano internazionale può ledere la posizione che la Russia si era costruita in questi anni in diverse regioni dall’Africa al Caucaso come attore principale e mediatore. Anche la difficoltà militare accelera la destabilizzazione nelle regioni sottoposte all’influenza russa (direttamente o meno), soprattutto in quella caucasica. Il mancato raggiungimento degli obiettivi militare in Ucraina e la conseguente diffidenza verso l’apparato militare statale permetterà una maggior ingerenza delle compagnie di sicurezza privata, gruppo Wagner in testo, nella politica interna ed estera del Cremlino.

Tra i tanti scenari in cui la Russia gioca un ruolo importante, l’area caucasica rimane quella più instabile e imprevedibile per il Cremlino. Le proteste di Tbilisi contro la legge sugli “agenti stranieri”, e la palese difficoltà al mantenimento della pace nella regione del Nagorno-Karabakh appaiono una minaccia concreta per la geopolitica russa in merito a stabilità e influenza nello spazio post-sovietico. La vera sfida per la politica del Cremlino rimane quella di esprimere una capacità militare in Ucraina e contenere reazioni avverse al suo operato in altri contesti regionali ma ugualmente vitali per gli interessi nazionali.

Dopo la “Seconda Guerra del Karabakh” del 2020, l’accordo trilaterale tra Armenia, Azerbaijan e Russia sancì l’ingresso di circa 2000 peacekeepers del Cremlino all’interno della regione contestata. La missione di pace, paradossalmente garantita da soldati russi, prevede un periodo di cinque anni (2020-2025) rinnovabili per altri cinque. Nell’ultimo biennio le continue crisi e escalation militari hanno anticipato l’’attuale crisi umanitaria lungo il corridoio di Lachin, ossia l’unica strada attualmente percorribile che collega il territorio del Nagorno-Karabakh ancora abitato e amministrato dalla popolazione armena e la Repubblica di Armenia.

Il blocco degli ‘ambientalisti’ azeri, orchestrato e tollerato da Baku, ha posto la missione russa in Karabakh in una posizione di evidente difficoltà.

L’incontro tra le autorità armene del Karabakh e quelle azere, organizzato per costituire un possibile canale di comunicazione, non ha previsto la partecipazione del contingente pace russo. Tale assenza ridimensiona ulteriormente il Cremlino sia dinnanzi alla società civile azera, che non hanno mai nascosto il malcontento perla presenza russa, e dinnanzi al crescente consapevolezza armena che proprio i russi non siano capaci di salvaguardare la loro sicurezza. Anche l’ultimo incidente tra forze di polizia armene e un presunto gruppo di sabotatori azeri, sembra riconfermare l’incapacità dei russi nella gestione della missione di pace. Simbolica l’iniziativa di alcuni giovani armeni che davanti a un convoglio russo hanno esposto dei cartelli dal messaggio inequivocabile: Dove siete voi, c’e’ Pace?

Il malcontento armeno potrebbe però essere indotto dalla strategia azera. Una strategia, quest’ultima, capace di tollerare una violenza “a bassa pressione” con continui e geograficamente circoscritti atti ostili contro la popolazione civile armena. Numerosi sono i casi di chiamate telefoniche alla popolazione armena di tipo intimidatorio, con anche tentativi di compravendita di proprietà, interruzione temporanea della luce elettrica e del gas, strumentalizzazioni di tematiche assai popolari, come quella della protezione dell’ambiente, hanno sempre anticipato momenti di crisi politico-militare.

Tutto ciò potrebbe condurre a una lento spopolamento  del Karabakh armeno nel lungo periodo, un’accelerazione di un accordo proprio con le autorità politiche armene e Baku nel medio-periodo, e la conferma della debacle russa nell’“estero vicino” (Near Abroad Policy) nel breve-periodo.

Quest’ultimo aspetto rimane fondamentale anche sul versante della guerra in Ucraina. Così come l’Afghanistan e la sua resistenza dissanguarono l’Armata Rossa anticipando il crollo del regime sovietico, la periferia caucasica potrebbe oggi giocare un ruolo fondamentale nella possibile sconfitta militare russa in Ucraina. Infatti, il ridimensionamento delle capacità di peacekeeping russo nel Nagorno-Karabakh rimane parallela alla difficoltà militare russa in Ucraina. Se il primo ridimensiona lo storico ruolo di ‘protettorato’ delle vicissitudini armene, il secondo condurrebbe altri attori internazionali – dall’Africa all’Asia Centrale, a dubitare del vero potenziale diplomatico-militare di Mosca sul piano internazionale.

Su livelli diversi ma interconnessi, la periferia caucasica potrebbe anche anticipare la debacle militare russa in Ucraina e, qualora venisse a manifestarsi nel medio e lungo termine, potrebbe anche sancire la sconfitta politica dell’attuale leadership del Cremlino.