Personalmente, ma forse è solo un mio limite, non sono ancora riuscito a cogliere il nesso tra la guerra in Ucraina e l’aumento dei prezzi del gas. Ricordo che già nello scorso dicembre, due mesi prima dell’inizio del conflitto, si parlava di rincari pesanti delle bollette. E in effetti andando a spulciare negli archivi qualcosa si trova. Sul sito dell’Arera, l’autorità di regolazione per energia reti e ambienti, c’è un rapporto risalente al 30 dicembre 2021 in cui si esamina, per l’appunto, il rincaro dei prezzi del gas.
Un aumento che riguarda, si legge, “i nuovi straordinari record al rialzo dei prezzi dei prodotti energetici all’ingrosso (quasi raddoppiati nei mercati spot del gas naturale e dell’energia elettrica nel periodo settembre-dicembre 2021) e dei permessi di emissione di CO2, avrebbero portato ad un aumento del 65% della bolletta dell’elettricità e del 59,2% di quella del gas”.
La narrazione mediatica di allora dava la colpa soprattutto agli effetti legati al rimbalzo post Covid. L’aumento improvviso della domanda, legata alle riaperture post pandemiche nei Paesi industrializzati, ha fatto schizzare i prezzi delle materie prime. Il primo rincaro delle bollette di dicembre ha fatto seguito a un’altra grande emergenza sul piano economico, ossia la crisi dei microchip. Anche quest’ultima legata al rimbalzo successivo alle riaperture.
Oggi di queste concause non si parla più. A sentire le dichiarazioni dei principali leader europei, l’unica vera causa dei rincari dei prezzi delle materie prime ha unicamente a che fare con la guerra. Indubbiamente il conflitto in Ucraina ha le sue colpe. Sia perché una delle parti in causa è la Russia, tra i maggiori produttori di gas, sia per via delle sanzioni imposte a Mosca dall’Europa e dagli Stati Uniti. Variabili certamente in grado di influenzare l’andamento dei prezzi.
Agitare però lo scettro bellico come unica causa, dimenticando le altre concause, nella migliore delle ipotesi può essere vista come una manovra politica volta a mettere sotto il tappeto problemi mai risolti. Per essere ancora più chiari, dire che la guerra sta incidendo sulle nostre vite e sul rincaro delle bollette sembra un’opera di disonestà intellettuale.
Passi che l’Europa ha scelto di trovare da subito, con operazioni molto difficili e a volte anche discutibili, altri partener energetici per dire addio alla Russia. Passi che nel vecchio continente si vuole attuare un piano per differenziare le fonti di approvvigionamento di energia, puntando su un verde ancora però lontano da percentuali di impiego concretamente incidenti. Passi che oggi occorrono sacrifici per raggiungere determinati obiettivi di riduzione dei consumi. Ma il problema vero sta nei costi della materia prima. Costi che sono aumentati già prima della guerra.
Torniamo un attimo su quanto scritto a dicembre dall’Arera. C’è un passaggio in cui si dice che si sta assistendo “a nuovi straordinari record al rialzo dei prezzi dei prodotti energetici all’ingrosso (quasi raddoppiati nei mercati spot del gas naturale e dell’energia elettrica nel periodo settembre-dicembre 2021)”. C’è quindi un fattore determinante per l’aumento dei prezzi: il mercato. E, in particolare, c’è un mercato che fa da riferimento per il gas, quello di Amsterdam.
Abbiamo imparato a conoscere negli ultimi mesi la sigla Tff. É l’acronimo di Title Transfer Facility e indica per l’appunto la borsa del gas di Amsterdam. La si sente adesso spesso nominare quotidianamente oramai in quanto è da lì che viene determinato il prezzo base del gas. Si tratta di uno di quegli acronimi e di quei nomi che diventano familiari poi soltanto in tempi di crisi. Un po’ come quando, nel bel mezzo della crisi dell’Euro dello scorso decennio, abbiamo preso confidenza con il termine “Spread”. In quel caso non si trattava di una borsa, né di un istituto. Il nome indica il tristemente famoso “differenziale” tra gli andamenti dei titoli italiani e quelli dei titoli tedeschi e la sua impennata nel 2011 ha contribuito a far cadere un governo, quello di Berlusconi.
Il Tff esiste dal 2003 e nel corso degli anni ha soppiantato tutte le altre borse come riferimento cardine per l’andamento del prezzo del gas. Questo ha donato alla borsa un potere ovviamente molto forte, nonostante nella capitale olandese quotidianamente venga contrattato solo tra il 3% e il 4% del gas negoziato in Europa.
Chi ci assicura sul fatto che, soffiando sulle varie difficoltà internazionali e politiche, all’interno della borsa di Amsterdam da un anno a questa parte non si sia innescata una spirale speculativa? Il problema però non è nemmeno una possibile speculazione, in realtà tutta da dimostrare. Il problema sta nel fatto che da anni si è consegnato al Tff il potere di decidere ogni aspetto del settore energetico. E quindi di incidere poi sulla stessa nostra quotidianità.
Non c’entrano qui né speculazioni e né complotti. Il problema è squisitamente politico. Si è deciso, non solo sul gas ma su tutti gli altri settori essenziali, di affidare tutto al mercato da almeno 30 anni a questa parte. Ci può anche stare. Ma non si è tenuto conto che il mercato ha delle regole tutte sue, spesso difficilmente compatibili con le esigenze dell’economia reale. Con le esigenze di chi, per dirla in termini poveri, al mattino si deve alzare per fare la spesa. Il mercato (e chi lo determina, spesso in modo poco liberale) non ha certo pensiero di bollette, di mutui da pagare e, più in generale, dell’ordinario quotidiano di una famiglia o di un’impresa.
E siccome il mercato in certi ambienti europei è vissuto come una vera e propria religione, metterlo in discussione equivale a un sacrilegio. Per cui è molto più comodo puntare il dito su guerre e pandemie, influenti sì sull’andamento dell’economia ma a questo punto non decisivi come le borse.
Oggi di questo se n’è resa conto Ursula Von Der Leyen, presidente della commissione europea. Forse quindi qualche tabù sacrilego sta cadendo davanti all’evidenza. Il capo dell’esecutivo comunitario ha indicato, tra i quattro punti elencati mercoledì nel nuovo piano europeo per contrastare il caro bollette, anche il superamento del prezzo determinato dal Tff quale valore di riferimento. Il tutto per arrivare al “price cap“, il famigerato tetto del prezzo.
Un intervento volto probabilmente a salvare la faccia agli eventuali speculatori e, al tempo stesso, a evitare una degenerazione della situazione a livello sociale. Ma il problema di fondo rimane: la politica deve riprendere in mano il controllo dei settori essenziali. Tra i suoi pro e contro, tra i suoi pregi e difetti, la politica deve sempre rispondere a una società e a una pubblica opinione. Il mercato no.