La Macedonia del Nord è in fermento dal primo luglio, giorno in cui il principale partito di opposizione del Paese, volgarmente noto con la sigla VMRO-DPMNE, è riuscito a portare in piazza decine di migliaia di persone capitalizzando il livore revanscistico (ampiamente) presente nella società a causa dell’irrisolta questione del posto nel mondo del popolo macedone.
Se è vero che tre indizi fanno una prova, allora dietro questa prevedibile escalazione, perché della possibilità di incidenti a orologeria nei Balcani ne avevamo scritto in tempi non sospetti – tra marzo e aprile –, potrebbe celarsi lo zampino della Russia.
La posta in gioco
A Skopje si protesta ininterrottamente da inizio mese, a oltranza e massicciamente, e il 6 sarebbe potuta accadere la tragedia: in un incontro ravvicinato tra albanesi e slavi sono apparse delle armi da fuoco. Soltanto l’intervento tempestivo delle forze dell’ordine ha impedito che il grilletto venisse premuto e fosse versato del sangue che, in una multinazione così giovane e dilaniata dagli etno-identitarismi, qualcuno si sarebbe probabilmente affrettato a vendicare. Ma la tensione resta altissima, anche perché VMRO-DPMNE non ha intenzione di ritirare l’appello alla mobilitazione.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso (di Pandora) è stata una proposta elaborata dalla presidenza Macron, presentata in mondovisione al vertice di Madrid, volta a risolvere gli screzi di lunga data tra Macedonia del Nord e Bulgaria, che, da anni, ostacolano l’ingresso della prima nell’Unione Europea a causa dei veti della seconda. Uno stallo che, complice l’aggravamento della competizione tra grandi potenze, l’UE profonda a guida franco-tedesca sente sia giunto il momento di superare in maniera tale da portare a compimento l’agognato allargamento all’ex Iugoslavia. Anche perché tra i due litiganti, Skopje e Sofia, chi ha goduto e sta godendo è Mosca.
Il contenzioso nordmacedone può apparire un conflitto privo di logica per gli abitanti dell’Europa occidentale, la cui bussola post-storica impedisce loro di comprenderne le dimensioni storico-pedagogiche, ma la verità è che in palio non c’è mai stato (soltanto) un posto a sedere per Skopje nella tavola dell’eurofamiglia. In palio vi sono l’indebolimento del fianco sudorientale dell’Alleanza Atlantica, l’impantanamento dell’UE nella polveriera balcanica e, potenzialmente, il risveglio dal coma dei conflitti congelati che l’Occidente ha ereditato dall’ex Iugoslavia: Bosnia ed Erzegovina, Serbia-Kosovo, Macedonia del Nord.
Odore di zolfo nell’aria
La situazione nordmacedone è da monitorare per almeno sei ragioni, tre delle quali conducono direttamente al Cremlino:
- La chiamata alle armi è stata lanciata dal partito VMRO-DPMNE, all’opposizione dal 2020, la cui piattaforma ideologica è una macedonia balcanica – albanofobia, antiamericanismo, antieuropeismo, suprematismo slavo – e i cui legami col Cremlino sono un segreto di Pulcinella;
- La Macedonia del Nord è il ventre molle dell’albanosfera, il microcosmo civilizzazionale incardinato sul triangolo Tirana-Pristina-Skopje, perciò quello che accade qui è suscettibile di innescare un effetto contagio in Serbia-Kosovo;
- La questione albanese della Macedonia del Nord è rimasta irrisolta, tanto quanto quella bulgara, e riscuote ampi consensi anche tra i nazionalisti nordmacedoni moderati. Una situazione comparabile a quella curda in Turchia, dove la lotta al separatismo armato del PKK unisce trasversalmente destra e sinistra, laici e religiosi, moderati e nazionalisti.
- La scelta del VMRO-DPMNE di spostare il focus dalla proposta macroniana, che ha a che fare con la Bulgaria – e non con l’Albania –, potrebbe non essere casuale: i dissidi interetnici con gli albanesi, e non coi bulgari, sono quelli in grado di alimentare un incendio più velocemente e più facilmente;
- La riattivazione del VMRO-DPMNE, la principale quinta colonna del Cremlino in loco, potrebbe essere una risposta asimmetrica al monito dell’Occidente dello scorso giugno, quando la Serbia fu completamente sigillata via aerea per un giorno;
- La Russia potrebbe utilizzare una crisi alle porte dell’UE per distoglierne sguardo, mezzi e attenzione dall’Ucraina. Un diversivo, insomma, tanto economico – perché esternalizzato ad una quinta colonna – quanto efficace.
Cosa potrebbe succedere?
L’auspicabile rientro o la possibile detonazione della crisi dipenderanno dall’abilità del governo in carica, ma anche dal “fattore Bulgaria” – la grande incognita insieme alla Russia –, nonché dal ruolo di mediazione dietro le quinte che, molto probabilmente, Francia e Germania stanno già esercitando.
Non è detto che la curiosa riattivazione di VMRO-DPMNE da parte della Russia abbia quale obiettivo finale l’innescamento di un incendio. Molte volte, invero, operazioni di disturbo di questo tipo vengono esperite per tastare il clima generale – se la società è abbastanza divisa e polarizzata –, per valutare il potenziale dell’agente provocatore – VMRO-DPMNE in questo caso – o per verificare la praticabilità della missione – se nel teatro si può aprire un conflitto oppure no. Altre volte, invece, possono essere dei moniti oppure delle vere e proprie prove tecniche di guerra (per procura).
Per la Federazione russa rappresenterebbe una significativa vittoria il ritorno al potere di un VMRO-DPMNE rivitalizzato dalla radicalizzazione delle questioni bulgara e albanese, perché equivarrebbe a possedere un cavallo di Troia all’interno della NATO e una mina da lanciare contro la vulnerabile e sensibile albanosfera, a sua volta legata a doppio filo alla serbosfera – perché il passo da Pristina a Banja Luka è breve –, che è il perno della grand strategy degli Stati Uniti per i Balcani.
Il compito dell’UE non è semplice: è storico. Perché dalla ricomposizione della longeva controversia nordmacedone dipendono tre eventi in grado di incidere profondamente sulla traiettoria del progetto europeo: la securizzazione del fianco meridionale della NATO, il raffreddamento della scoppiettante albanosfera e la prevenzione delle quarte guerre balcaniche.