Inutile spendere molte parole sulla conferenza stampa di ieri sera di Luigi Di Maio. L’attuale ministro degli Esteri è arrivato al culmine di una lite tutta interna a quel che rimane del Movimento Cinque Stelle e ha deciso di alzare i tacchi. Non per correre via, bensì per rimanere ancora più saldo alla sua poltrona della Farnesina e magari sperare in qualche altro incarico nei futuri governi.
Ma appare meritevole di riflessione un aspetto del duello organico al mondo pentastellato che ha portato all’addio di Di Maio. Il ministro ha sconfessato dieci anni di grillismo. Due i concetti cardine del suo discorso: non è vero che uno vale uno e, soprattutto, stare al governo è cosa ben diversa che stare eternamente all’opposizione.
Finché ad abbandonare il movimento era qualche sindaco poi buttato fuori dalle fantomatiche piattaforme virtuali di elettori, il discorso rimaneva confinato all’ambito locale. Ma se a gettare via i cardini del grillismo è un ministro in carica, nonché un ex capo politico del Movimento stesso, allora la situazione è destinata inevitabilmente ad assumere un altro aspetto.
E, in particolare, l’aspetto del tramonto dell’era della reazione. Il grillismo nasce dal Vaffa Day di Beppe Grillo del 2007, per poi essere trascinato fin dentro il porto principale della politica dalla forte insofferenza degli italiani. Il movimento è quindi figlio di una reazione: la popolazione si era stancata della classe politica e ha reagito votando quelle liste che più hanno incarnato il malcontento. Un elemento quest’ultimo dovuto a più fattori. Non solo la percezione di una corruzione molto forte e non solo la percezione anche di avere a che fare con una classe dirigente dagli stipendi molto alti. Non solo questioni di principio quindi, ma anche concreti problemi rintracciabili nel quotidiano: diminuzione del potere d’acquisto, deterioramento dei servizi principali, un precariato giovanile in grado di tagliare fuori un’intera generazione, una qualità della vita sempre meno soddisfacente.
A tutto questo gli italiani hanno provato a reagire. Ma la reazione, di per sé, non basta. La parabola del Movimento Cinque Stelle lo ha dimostrato e l’addio di Di Maio lo ha conclamato. L’Italia ha reagito, ma ha consegnato la sua reazione a un grillismo incapace di andare oltre i già scarni contenuti politici iniziali. E così, anno dopo anno, il movimento si è spento ed è franato sotto il suo stesso peso. Impossibile infatti portare sulle spalle milioni di voti degli italiani senza una vera struttura partitica e senza una struttura ideologica o comunque determinata almeno da precisi orientamenti politici.
Ci si è quindi resi conto che l’antipolitica non può essere fatta senza la politica. Di Maio, oramai organico al “palazzo”, pur essendo privo di una formazione politica lo ha notato. Il movimento forse non scomparirà, ma si limiterà a rappresentare quella fetta di elettorato tornata alle urne sulla spinta dei meet-up e dei primi gruppi di simpatizzanti grillini. Poco però per continuare a rappresentare la “reazione” degli italiani.
Difficile, una volta terminata la stagione reazionaria, capire cosa accadrà. Forse dopo la reazione seguirà la rassegnazione. Nelle ultime tornate amministrative e referendarie, i seggi sono stati ben poco frequentati dagli elettori. Disgustati, ad oggi, sia dalla politica che dall’antipolitica.