Non c’è ancora un clima primaverile e poi un martedì è sempre un martedì. Non è proprio un giorno che ispira ad uscire, specie poi se ci sono importanti impegni lavorativi. E così anche se la testa, pensando alla nazionale, è sulla mancata qualificazione dell’Italia ai mondiali in Qatar, qualche minuto a guardare l’amichevole degli azzurri in Turchia è stato molto più che “benedetto”.
La nazionale ha segnato in terra turca tre reti, a Palermo contro la Macedonia del Nord invece la palla dava l’impressione di non entrare nemmeno se gli undici avversari avessero deciso simultaneamente di fare autogol. Una questione di testa probabilmente. Senza pressione e senza quell’enorme peso sulle spalle di doversi a tutti i costi qualificare l’Italia ha ritrovato la via del gioco e quindi anche dei gol.
Ma credo personalmente ci sia anche dell’altro. Ed è una lezione storica che oltrepassa il semplice aspetto sportivo. L’Italia ha il vizio, quando vince, poi di sedersi. L’Italia, forse perché ancora immatura come nazione, non ha ancora imparato a vincere. Andando indietro con il tempo, nel calcio troviamo altri esempi. Nel 1982 abbiamo vinto i mondiali e poi non ci siamo qualificati per i successivi europei mentre, quattro anni dopo, non siamo andati oltre che un mero ruolo di comparsa a Messico ’86. Anche con Lippi è accaduta la stessa cosa. Primi in Germania nel 2006, eliminati da neozelandesi e paraguaiani (non proprio i primi della classe) in Sudafrica quattro anni dopo.
La storia si è ripetuta. E si è ripetuta malamente. C’è il vizio tutto italiano di sedersi sugli allori e poi c’è quel termine così bello, quello cioè di “riconoscenza”, che puntualmente per il nostro Paese si dimostra una trappola. Squadra che vince non si cambia, ma almeno si dovrebbe modificare. E invece no. Chi in Italia vince acquisisce un rango di santità che lo rende intoccabile. Per cui guai a mutare ciò che prima ha funzionato. Guai a mettere in discussione chi prima ha vinto. Sembra quasi un discorso scaramantico.
Ecco, Mancini è caduto nello stesso tranello. La vittoria di luglio all’Europeo ha consegnato ragazzi seduti sugli allori oppure a fine ciclo. Ma guai a toccarli. Per cui si è andati avanti con i nomi della vittoria nonostante quei giocatori il massimo ormai lo avessero dato e raggiunto.
In Turchia il Ct ha fatto giocare gente più con più stimoli e con meno pressione sulle spalle e sono saltati fuori tre gol. Con la cattiveria agonistica di ieri sera forse almeno un gollonzo con la Macedonia lo avremmo fatto e con giocatori freschi il gioco voluto da Mancini sarebbe tornato a essere meno prevedibile per gli avversari.
Il danno oramai è stato fatto e ha regalato all’Italia per l’appunto una lezione storica. In un Paese spesso seduto e poco dinamico come il nostro, dove coniugare i verbi al futuro è più un vezzo che una sentita necessità, non appena si vince si stacca la spina. Morale: l’Italia non sa gestire le vittorie. Si dice sempre che bisogna saper perdere, noi dobbiamo imparare a saper vincere. Anche dalla vittoria nella prima guerra mondiale il nostro Paese ha solo tratto più guai che benefici. E a mezzo secolo dal boom economico siamo ancora qui a lodare il gran lavoro dei nostri nonni, i quali ancora oggi con le loro pensioni consentono a due generazioni di sopravvivere.
Il calcio è bello perché, nonostante la caterva di miliardi piovuti su di esso, è ancora uno sport popolare ed è quindi lo specchio dei popoli che le nazionali rappresentano. L’Italia, ancora una volta, si è riscoperta incapace di gestire una vittoria, vulnerabile e in panico quando si tratta di voltare pagina. Il bello e il brutto di un Paese non ancora nazione, non ancora maturo per andare oltre il semplice vivere alla giornata. Del resto uno dei padri fondatori della Repubblica lo ha ripetuto più volte: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.