“Non capisco come si possa pensare che sia colpa della Russia, che conduce operazioni militari in protezione dei cittadini russi”. Sono queste le parole di una mamma russa espresse a mia cugina residente a Roma, rimasta attonita di fronte all’ennesima distonia mediatica sulla guerra in Ucraina. Un’affermazione che però dovrebbe condurre verso un’analisi più approfondita degli odierni mezzi di comunicazione e del loro modus operandi. Più che del loro tanto doveroso quanto suicida dovere di sintesi, è forse l’inadeguatezza di commentatori e opinionisti che contribuisce maggiormente alla disinformazione della sfera pubblica italiana e, in parte, europea. Gli stessi commentatori e opinionisti che da Mosca continua a distorcere la prospettiva di monti in Russia e tra la diaspora russa. In Italia, invece, molti “esperti” sono oggi riciclati all’ennesima crisi sistemica, riducendo nuovamente la complessità degli eventi in Ucraina al semplice chiacchiericcio mediatico.
L’isterica polarizzazione appare come conseguenza di una società ormai priva di qualsiasi spirito critico. Il caso sulle lezioni di Dostoevsky, l’interruzione delle collaborazioni accademiche tra le università europee e quelle russe, e l’imbarazzante richiamo al Prof. Onofri dopo il suo intervento in una celebre trasmissione televisiva, facevano solo da preludio all’ennesima sterile divisione all’interno dell’informazione pubblica.
L’associazione tra russofonia e russofilia appare forse quella più insensata proprio per le ragioni che la muovono in forma binaria: solidarietà al popolo ucraino e condanna alle politiche militari di Mosca. Infatti, molti cittadini delle città di Kharkiv e Mariupol, ma anche di Zaporzhizhia, Dnipro e Odessa, parlano russo sotto i bombardamenti decisi dal Cremlino, non appoggiando Putin nella sua “operazione speciale”.
Anche l’attuale divisione appare desueta anche sul piano storico-politico. Alcuni recenti dati dimostrano infatti che la maggior parte dei cittadini della Federazione Russa sia favorevole all’“operazione” in Ucraina. Quasi il 60% è favorevole, e tra questi, il 75% pare aver formato la sua opinione direttamente dalla televisione russa. Nel mentre i cittadini russi conducono la loro quotidianità all’ombra delle sanzioni occidentali e le gigantografie della Z dipinta sui corazzati impegnati impegnati (maldestramente) nel conflitto, è straordinario percepire l’influenza linguistica del Cremlino tra gli occidentali, tra chi poco conosce della Russia e della lingua russa. Molti sostengono Putin nella sua personale campagna militare, mentre altri, assai più sofisticati nelle loro argomentazioni, utilizzano quella strategia comunicativa che gli anglofoni chiamano “whataboutism” o “whataboutry” – ossia, la capacità di sviare una precisa domanda per rintracciare discutili paragoni nella risposta. Già lo scrittore cecoslovacco Milan Kundera identificava come “una tragedia” le politiche di russificazione dell’Europa Centrale. Madina Tlostanova evidenzia i caratteri imperialistici della centenaria russificazione di popoli non-russi del Caucaso e Asia centrale, le cui ontologie e tradizioni appaiono quasi perdute nell’oblio della memoria. Leszek Kołakowski, tra i primi marxisti polacchi poi convertitosi al cattolicesimo, poneva il problema della lingua come strumento della dittatura sovietica e distruzione della memoria, anche linguistica.
“Я не русофоб, а путинофоб” – ossia, “Non sono russofobo, ma Putinofobo” – è un’altra frasе di comodo che Michael McFaul ha twittato pochi giorni addietro e che ha scatenato le critiche per i suoi precedenti politici, anch’essi di comodo. Un tweet istruttivo per comprendere le modalità della polarizzazione mediatica tra presunti ‘russofili’ e ‘russofobi’, continuando a trovare molto più spazio di quello che dovrebbe essere invece dedicato alla drammaticità dello scenario ucraino.
Molti ricercatori hanno anche dimostrato di come l’utilizzo della lingua russa nell’odierna Ucraina evidenzi una forte distanza dalle logiche politiche del Cremlino. Il russkiy mir (letterlamente, mondo russo), immaginario spazio all’interno del quale Mosca riusce a influire le opinioni dei russofoni delle vecchie repubbliche sovietiche, appare oggi impotente dinnanzi resistenza degli stessi cittadini ucraini. Forse sono ancora aperte le ferite storiche dell’Holodomor, la “grande fame” subita dagli ucraini dopo le forti collettivizzazioni del periodo stalinista. La loro resistenza appare non scalfire il loro diffuso bilinguismo, né la loro identità di cittadini ucraini costruita, non senza difficoltà, dalle istituzioni di Kiev dopo il 1991. Quello del bilinguismo, poi, è un fenomeno che contraddistingue le vecchie generazioni dei cittadini dell’Europa orientale, capace di sfociare in poliglottismo tra le nuove generazione. Molti giovani ucraini, infatti, come i loro coetanei moldavi, georgiani, armeni e azeri, parlano non solo le lingue nazionali e il russo usato dai loro nonni e genitori, ma anche altre lingue europee come viatico per un futuro migliore.
Le incongruenze storiche dal discorso di Putin – da Lenin all’odierno ‘nazismo ucraino’ passando per altre distorsioni politiche sul piano internazionale – hanno riaperto vetuste discussioni su identità linguistiche e nazionali nei Balcani. Lo spettro della guerra in Europa è ritornato in auge tra chi teorizza un effetto domino proprio verso il meridione orientale del Vecchio Continente, sbagliando due volte. Anche qui, in maniera acritica, la comparazione tra il Kosovo e il Donbass, assai diversi sul piano del diritto internazionale e interno tra l’allora Jugoslavia e l’odierna Ucraina, ripropone paradossalmente la stessa retorica di Vladimir Putin. I riferimenti del Presidente russo all’intervento della NATO nel 1999 non sono affatto recenti, né connessi alla crisi nell’Ucraina sudorientale. Tale comparazione esclude una più importante analisi delle manovre di Mosca all’interno del nazionalismo serbo nella Bosnia Erzegovina, vero strumento di delegittimazione delle autorità di Sarajevo, e sul non-riconoscimento del Kosovo da parte di cinque Paesi dell’Unione Europea – Grecia, Romania, Spagna, Cipro e Slovacchia. Dinnanzi alla possibilità di prossime destabilizzazioni nei Balcani, risolvere il nodo kosovaro potrebbe solamente che favorire l’unità europea.
Sulle identità linguistiche e nazionale, sono proprio i Balcani occidentali che potrebbero consegnare un’attenta prospettiva di lettura del contesto russo-ucraino. Così come la lingua russa in molte regioni del vecchio blocco orientale, quella serbo-croata rimane ancora la lingua franca fra molti serbi, bosniaci, sloveni, e croati, nonostante le differenze regionali e assai più profonde nei casi del Montenegro e della Macedonia del Nord. Le vecchie generazioni, tra le quali anche quella della comunità albanese del Kosovo, parlano il serbo-croato. Una capacità linguistica che travalica gli eventi traumatici della storia recente e che proprio in Kosovo rappresenta un pragmatico mezzo di riconciliazione tra moltissimi albanesi e serbi nelle città di Prizren, Peja, Rahovec e Gjilan. Anche l’attuale ‘veto culturale’ della Bulgaria sul possibile ingresso della Nord Macedonia in Unione Europea, altro argomento sconosciuto dallo stesso mainstream europeo, parla di diatribe lingustiche e identitarie. La figura di Gotse Delchev è significativa. Combattente per la liberazione della regione dal “giogo ottomano”, Delchev nacque a Kilkis, città della Grecia, parlava bulgaro e combatteva tra le fila dei rivoluzioni macedoni dell’attuale Macedonia del Nord. Forse, a differenza delle analisi tra Mosca e i Balcani, è proprio la retorica di Sofia sulla “questione macedone”, con le dovute differenze storiche, a riecheggiare quella moscovita sul Donbass. Ma finora nessuno appare accorgersene.
È proprio il rischio di una acritica storicizzazione di figure importanti della politica e cultura russa che pare ripresentare una “cancel culture” al contrario. Le statue di Lenin, ad esempio, figura fondamentale per l‘identità statale russa, furono in parte anche ridipinte coi colori nazionali ucraini, o rivestite coi costumi tradizionale del foklore bulgaro nella regione ucraina di Odessa dove proprio la comunità besarabba vive da secoli, parlando il russo. Ai molti sfugge come gli scritti dello stesso Lenin, fra tutti quello su “Il principio di autodeterminazione delle nazioni”, furono utilizzati da molti attori interni alle Repubbliche sovietiche per iniziare il loro cammino verso l’indipendenza da Mosca. Celebre è il caso del giornale “Atmoda” (Risveglio) nella Lettonia sovietica, che pubblicava gli scritti di Lenin per smascherare le contraddizioni ideologiche dello strapotere di Mosca. Oggi questo appare assai difficile da riproporre, se no attraverso l’ennesimo sterile posizionamento sulle cause del Donbass.
Detto ciò, la questione della sovranità ucraina in merito a Crimea e Donbass rimane fondamentale. Bisognerebbe analizzare l’incapacità del governo ucraino di creare una roadmap nella risoluzione del conflitto in Donbass alla vigilia degli attuali eventi. Un problema forse fin troppo sottovalutato. Così come appare oggi sottovalutato la teleologica convinzione sulla “fine della storia” che il celebre politologo Francis Fukuyama dichiarava dopo l’ammainamento della bandiera rossa dal Cremlino. Una visione hegeliana e fin troppo eurocentrica, mal compresa dallo stesso Occidente. Come afferma un altro politologo di origine bulgara, Ivan Krastev, la fine della storia non ha sancito la fine della Guerra Fredda, bensì l’impossibilità di elaborazione di un nuovo pensiero critico contro l’attrettanto nuovo discorso dominante. Come dargli torto?